Gino Pantaleone – Canti a Prometeo – All’insegna dell’Ippogrifo
C’è un Titano che si aggira silenzioso sull’Olimpo.
È Prometeo, dai “vari pensieri”, che con animo consapevole ha in mente d’ingannare Zeus e di aiutare gli uomini: ruberà una scintilla del fuoco divino e la donerà ai mortali. La punizione sarà esemplare, come racconta Esiodo: “Zeus legò Prometeo con inestricabili lacci (…) e sopra gli avventò un’aquila, ampia d’ali, che il fegato gli mangiasse immortale, che ricresceva altrettanto la notte quanto nel giorno gli aveva mangiato”.
Nei “Canti a Prometeo” (All’insegna dell’Ippogrifo) Gino Pantaleone evoca l’eroe, il suo gesto, l’idea stessa della ribellione: “Posso darti degli invasati versi/ donarti segreti liberatori/ ci hanno annientato tutto anche gli odori/ codesti Dei dai verdetti diversi”.
Lo fa scegliendo la struttura chiusa del sonetto, che pare abbia risuonato la prima volta nella corte federiciana, a Palermo, quando la città era tutta uno scintillio di spade e di poesia.
Pantaleone sceglie dei versi antichi per coniare dei pensieri moderni, pensieri d’amore e d’ira, di rabbia e di passione: “Il sogno mostrava la vita e il seme/ non c’è paesaggio chiaro a cui guardare/ dal duro cuore la coscienza preme”, e la sua diventa così poesia civile e lirica insieme, la sua voce suona simile a quella di un bardo gaelico, nel quale convivono amore e morte, perché l’una non può fare a meno dell’altro, e viceversa.
Ci immergiamo tremanti nell’eco chiara di queste parole, come in un nuovo medioevo, trascinati dall’urto possente o dalla carezzevole onda, e sentiamo che il Poeta, novello Prometeo, ci sta donando qualcosa di misterioso – la Bellezza – che ha strappato all’invidia di tutti i falsi dei che ci sovrastano.
Francesco Scrima